IL TRIBUNALE

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
        Yatte  Mbagnick, cittadino senegalese tratto in arresto il 29
novembre  2004,  e'  stato  condotto  dinanzi a questo giudice per la
convalida  ed  il  contestuale  giudizio direttissimo in relazione al
reato  di  cui  all'art. 14,  comma  5-ter,  del d.lgs. n. 286/1998 e
successive   modifiche,  perche',  ricevuto  in  data  29 marzo  2004
l'ordine  scritto  del  Questore  di Genova di lasciare il territorio
dello  Stato  italiano  entro  il  termine  di  cinque giorni, ivi si
tratteneva   senza  giustificato  motivo  in  violazione  dell'ordine
predetto.
    All'udienza  dell'11 marzo 2005 il p.m. ha sollevato questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 14,  comma 5-ter,  del d.lgs.
n. 286/1998  e successive modifiche, per contrarieta' agli articoli 3
e  27, terzo comma, della Cost. (v. memoria illustrativa). Dall'esame
degli  atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento non pare possa
profilarsi la sussistenza di un giustificato motivo all'inosservanza,
da  parte  di  Yatte Mbagnick dell'ordine impartitogli dal questore a
seguito di decreto del Prefetto di Genova del 21 gennaio 2004; ordine
personalmente  notificato  all'imputato  in  lingua  francese in data
29 marzo  2004  ed  in  cui  si  da'  atto dell'impossibilita' sia di
eseguire  l'espulsione  mediante  accompagnamento alla frontiera (per
indisponibilita'  del  vettore  o  di  altro  mezzo  idoneo),  sia di
trattenere  l'imputato presso un centro di permanenza temporanea (per
carenza di posti disponibili).
    In  ordine  all'istanza  del  pubblico ministero questo tribunale
ritiene  non  manifestamente  infondata  la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286/1998 come
sostituito   dall'art. 1,   comma   5-bis   della  legge  n. 271  del
12 novembre  2004  (che  ha  convertito in legge con modificazioni il
d.l.  n. 241  del  14 settembre  2004), nella parte in cui commina la
pena della reclusione da uno a quattro anni, per sospetta violazione:
        a)    dell'art. 3    Cost.,    sotto   il   duplice   profilo
dell'irragionevolezza  della scelta legislativa in merito all'entita'
della  pena comminata e dell'ingiustificata disparita' di trattamento
sanzionatorio rispetto a fattispecie analoghe;
        b)  dell'art. 27,  comma  3,  Cost.  perche' prevede una pena
detentiva i cui limiti edittali appaiono, in quanto sproporzionati al
disvalore dell'illecito, del tutto divergenti rispetto alla finalita'
rieducativa del condannato.
    La  questione  assume rilevanza nel presente giudizio poiche', in
caso  di  accoglimento della richiesta di condanna avanzata dal p.m.,
questo  giudice  dovrebbe  infliggere  una pena detentiva che pare in
contrasto con le norme costituzionali sopra indicate.
    In  merito  al  primo dei profili d'illegittimita' denunciati, si
osserva   che,   sebbene   dal   controllo   demandato   alla   Corte
costituzionale  sia  escluso, ai sensi dell'art. 28 legge n. 87/1953,
«ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento», la
stessa  Corte ha piu' volte precisato che l'esercizio di detto potere
«puo'   essere   censurato,   sotto  il  profilo  della  legittimita'
costituzionale,  soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il
limite  della  ragionevolezza»  (cosi'  Corte cost., sent. n. 409 del
1989;  v.,  altresi'  sentenza  n. 62 del 1986; n. 84/1997; ordinanza
n. 267 del 1999).
    Nel caso in esame, la scelta di inasprire la pena per il reato di
cui  all'art. 14,  comma  5-ter  del  t.u.  in  tema  di immigrazione
(raddoppiando  il  minimo e quadriplicando il massimo originariamente
previsti)  appare arbitraria in quanto non sorretta da criteri logici
e razionali, quale potrebbe essere un recente maggior allarme sociale
determinato  dalla  presenza  sul territorio dello Stato di stranieri
clandestini.
    Ad  avviso  del  giudicante, gli emendamenti apportati in sede di
conversione   del   decreto-legge   n. 241   del   14 settembre  2004
evidenziano   come   il  rigore  sanzionatorio  introdotto,  anziche'
rispondere a mutate esigenze di politica criminale, abbia quale unica
finalita'   quella   di   surrettiziamente   ripristinare   l'arresto
obbligatorio,  la  cui  previsione,  in  relazione  alla  fattispecie
incriminatrice  in esame, e' stata dichiarata illegittima dalla Corte
costituzionale  con  sentenza  n. 223  del  2004.  Al  riguardo  pare
opportuno   ripercorrere  brevemente  l'iter  che  ha  condotto  alle
modifiche   da   ultimo  inserite  nel  testo  unico  in  materia  di
immigrazione.
    Il  decreto-legge n. 241 del 14 settembre 2004, come si legge dal
preambolo,  e' stato emanato sulla base della ritenuta «necessita' ed
urgenza,  a  seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 222
del  15 luglio 2004, di modificare l'attuale disciplina in materia di
espulsioni  di  immigrati clandestini, per assicurare piena efficacia
alle  garanzie previste dall'art. 13 della Costituzione anche per gli
stranieri  per  i  quali  sia  stato  disposto l'accompagnamento alla
frontiera   e,   contestualmente,   prevedere   adeguate  misure  per
assicurare  la  massima celerita' dei provvedimenti di convalida e di
esecuzione delle espulsioni».
    In  attuazione di quanto deciso dalla Corte costituzionale con la
sentenza   su  indicata,  il  decreto-legge  n. 241/2004  ha  infatti
previsto,  all'art. 1,  comma 1, la sospensione del provvedimento del
questore   di  allontanamento  dal  territorio  nazionale  sino  alla
decisione   da   parte  del  giudice  di  pace  sulla  convalida  del
provvedimento di accompagnamento alla frontiera.
    Lo   stesso   art. 1   ha  inoltre  sostituito  l'art. 14,  comma
5-quinquies,   del  testo  unico  in  materia  di  immigrazione  (che
prevedeva  l'arresto  obbligatorio ed il giudizio direttissimo sia in
relazione  al  reato  di  inosservanza  dell'ordine  del  questore di
allontanarsi  dal  territorio  dello Stato entro il termine di cinque
giorni,  sia  in  relazione al reato di reingresso in Italia da parte
dello  straniero  espulso),  facendo  venir  meno  la possibilita' di
procedere  ad arresto nei confronti degli stranieri inottemperanti al
predetto ordine del questore (v. art. 1, comma 6, d.l. cit.).
    E'  evidente  che  con tale ultima disposizione il legislatore ha
inteso  adeguarsi,  non gia' alla sentenza n. 222 del 15 luglio 2004,
bensi'  a  quella coeva con cui la Corte costituzionale ha dichiarato
l'illegittimita',   per   violazione   degli   artt. 3  e  13  Cost.,
dell'art. 14, comma 5-quinquies T.U. immigrazione «nella parte in cui
stabilisce  che  per  il  reato previsto dal comma 5-ter del medesimo
art. 14 e' obbligatorio l'arresto dell'autore del fatto» (v. sentenza
n. 223  del 15. luglio 2004 ove il giudice delle leggi ha ritenuto la
manifesta irragionevolezza della misura «precautelare» prevista dalla
norma  censurata,  non essendo la stessa suscettibile di sfociare, in
base  al  vigente  ordinamento  processuale,  in  alcun provvedimento
coercitivo.   Sul   punto   si   veda  la  Relazione  governativa  al
decreto-legge,  in  cui  si  precisa  che «in relazione alla sentenza
n. 223  del 2004 della Corte costituzionale ... il decreto provvede a
rimodulare il testo della norma censurata, escludendo il reato di cui
al comma 5-ter dalla disposizione che impone l'arresto»).
    In   sede   di  conversione  del  decreto-legge  n. 241/2004,  il
legislatore, tra le altre modifiche apportate, ha:
        1)  reintrodotto  l'arresto  obbligatorio  per  la violazione
dell'ordine  del  questore  di  allontanarsi dal territorio nazionale
(salva   l'ipotesi  in  cui  il  provvedimento  di  espulsione  dello
straniero  destinatario  dell'intimazione  del  questore,  sia  stato
emesso  «perche'  il  permesso  di  soggiorno  e'  scaduto da piu' di
sessanta giorni e non ne e' stato richiesto il rinnovo»);
        2)  modificato  l'originario trattamento sanzionatorio per il
reato  suddetto,  stabilendo  la reclusione da uno a quattro anni, in
luogo  dell'originaria  pena  dell'arresto  da  sei  mesi ad un anno,
attualmente  riservata  al  solo  caso  in cui l'espulsione sia stata
decretata  per scadenza del permesso di soggiorno di cui non e' stato
richiesto il rinnovo (cfr. art. 1, comma 5-bis).
    Appare   dunque  evidente  -  nonostante  nel  corso  dei  lavori
preparatori  tali emendamenti siano stati presentati quale attuazione
della  pronuncia n. 223 della Corte costituzionale (cfr., ad esempio,
relazione 1ª Commissione in sede referente del 26 ottobre 2004) - che
solo mediante un adeguamento del limite edittale massimo per il reato
di   inosservanza   dell'ordine   del   questore  a  quello  previsto
dall'art. 280  cod.  proc.  pen. ai  fini dell'adozione di una misura
cautelare  coercitiva  (e,  in  particolare, a quello previsto per la
custodia cautelare in carcere), il legislatore ha potuto reintrodurre
l'arresto   obbligatorio   dell'autore   del  fatto,  che  lo  stesso
decreto-legge  oggetto  di conversione, in ossequio - esso si' - alla
pronuncia  della Consulta, aveva eliminato dal previgente testo unico
in materia di immigrazione.
    La  misura della pena comminata per il reato in questione risulta
in  contrasto  con  l'art. 3  Cost.,  non  solo  perche' priva di una
giustificazione  realmente  connessa  ad  un  mutamento  del fenomeno
dell'immigrazione clandestina (che, attraverso la normativa contenuta
nel testo unico n. 286/1998, s'intende contrastare), ma anche perche'
non  ragionevolmente  rapportabile al tipo di illecito. La violazione
sanzionata  e'  invero un reato di pericolo, la cui incriminazione ha
lo  scopo  di  «rendere  effettivo  il  provvedimento  di espulsione,
rimuovendo  situazioni  di  illiceita'  o  di pericolo correlate alla
presenza  dello  straniero  nel territorio dello Stato» (cosi': Corte
cost.,  ordinanza  n. 302/2004).  E'  pur  vero  che l'art. 14, comma
5-ter,  prevede  un'ampia  cornice  edittale,  si'  da  astrattamente
consentire  l'irrogazione  di  una  risposta  punitiva modulata sulle
singole  concrete  fattispecie. Cio' nonostante, il minimo di un anno
di  reclusione  appare sproporzionato per eccesso rispetto ai casi in
cui  il soggetto attivo del reato non risulta in concreto socialmente
pericoloso.
    Il  principio  di  proporzionalita' tra pena e gravita' del fatto
(recentemente   recepito   nella  Carta  costituzionale  europea:  v.
art. II-109,  comma  3),  come piu' volte precisato dal Giudice delle
leggi,  e'  espressione del piu' generale principio di uguaglianza di
cui  all'art. 3  Cost., la cui osservanza da parte del Legislatore fa
si'  «che  il  sistema  sanzionatorio  adempia,  nel  contempo,  alla
funzione  di  difesa  sociale  ed  a quella di tutela delle posizioni
individuali»   (cosi'  Corte  cost.  n. 409/1989;  si  veda  altresi'
sentenza  n. 84  del  1997,  in  cui  la  Corte,  ribadendo  che  «la
valutazione  di  adeguatezza  delle sanzioni penali in relazione alla
gravita'   dell'illecito   spetta   alla   ...  discrezionalita'  del
legislatore,  col limite della non irragionevolezza», ha ritenuto non
fondata   la   questione  di  legittimita'  dell'art. 93  del  d.P.R.
n. 570/1960, poiche' la norma impugnata commina pene determinate solo
nel  massimo  e  non  nel  minimo,  consentendo, dunque, che fatti di
minore  gravita'  siano puniti in concreto con le pene previste dagli
articoli 23 e 24 cod. pen.).
    A  dimostrazione dell'incongruenza del rapporto tra disvalore del
fatto  incriminato  e  sanzione  penale comminata dall'art. 14, comma
5-ter,  vale  altresi'  il  raffronto tra detta disposizione e quella
contenuta    nell'art. 13,   comma 13-bis,   primo   periodo   d.lgs.
n. 286/1998, che parimenti punisce con la reclusione da uno a quattro
anni  il  trasgressore del divieto di reingresso nello Stato italiano
conseguente  ad  un'espulsione  disposta  dal giudice e rispetto alla
quale,  singolarmente,  il  legislatore  del  2004  non  ha avvertito
l'esigenza di inasprire il trattamento sanzionatorio. Eppure trattasi
di  una  condotta  criminosa  piu'  grave rispetto a quella delineata
dall'art. 14,  comma 5-ter,  sia  perche'  implica  un  comportamento
attivo  da  parte  dello  straniero gia' espulso, sia - soprattutto -
perche'  realizzata  da  un  soggetto concretamente pericoloso per la
collettivita'  o  che,  comunque,  e'  gia'  stato  raggiunto  da una
sentenza   di   condanna.  Ai  sensi  degli  artt. 15  e  16,  d.lgs.
n. 286/1998,   l'espulsione  viene  infatti  disposta  dall'autorita'
giudiziaria:  1)  a titolo di misura di sicurezza nei confronti dello
straniero,  socialmente pericoloso, condannato per uno dei delitti di
cui  agli artt. 380 e 381 c.p.p.; 2) a titolo di sanzione sostitutiva
di  una  pena  detentiva non superiore a due anni, sempre che non sia
possibile  formulare  nei  confronti  dello  straniero condannato una
prognosi  di  non  recidiva;  3)  a titolo di misura alternativa alla
detenzione  nei  confronti  dello  straniero  condannato  e che debba
scontare una pena, anche residua, non superiore a due anni.
    Appare arduo comprendere la ragione della scelta di riservare una
pena  identica  a fatti criminosi che lo stesso legislatore, solo nel
luglio  2002,  aveva  diversamente  apprezzato sotto il profilo della
lesione  dell'interesse pubblico tutelato, tanto da configurare l'uno
(il ritorno in Italia dello straniero coattivamente espulso a seguito
di provvedimento giurisdizionale) un delitto, l'altro (l'inosservanza
dell'intimazione   del   questore   ad  allontanarsi  dal  territorio
nazionale)  una fattispecie meramente contravvenzionale da punire con
l'arresto da sei mesi ad un anno.
    Un'ulteriore   violazione   del   principio   costituzionale   di
uguaglianza  (che  impone un trattamento differenziato per situazioni
non  omogenee)  e'  ravvisabile ponendo a raffronto le pene comminate
dalla  norma impugnata e quelle comminate dall'art. 13, comma 13-bis,
secondo periodo, che punisce il reingresso in Italia dello straniero,
gia'  denunciato  per  il  medesimo fatto e coattivamente espulso. In
relazione a tale ultima fattispecie incriminatrice il legislatore del
2004 ha per vero inciso sulla pena, limitandosi tuttavia ad innalzare
il  solo  limite massimo edittale (che e' passato da quattro a cinque
anni  di  reclusione), lasciando invece invariato il limite minimo di
un anno. La diversa gravita' delle condotte in esame, anche in questo
caso,  non  era  sfuggita  al legislatore del 2002, che aveva infatti
riservato  alle stesse un trattamento sanzionatorio ben differenziato
sotto il profilo qualitativo e quantitativo. Anche il lieve «ritocco»
apportato,  per  rimarcare  quella  che  il  legislatore non puo' che
continuare a considerare ipotesi piu' grave, non rispetta il rapporto
tra   i   limiti   (minimo   e  massimo)  di  pena,  che  in  origine
opportunamente  distingueva  le  due  fattispecie  incriminatici.  Ad
avviso  del tribunale, appare comunque del tutto irragionevole punire
con  lo  stesso  minimo  edittale  sia  lo  straniero  inottemperante
all'ordine  del  questore,  sia lo straniero che, gia' denunciato per
analogo  reato  (con cio' solo dimostrando una maggiore pericolosita'
sociale), ritorna in Italia dopo esserne stato due volte espulso manu
militari.
    L'entita'   della   pena   comminata   risulta  irragionevolmente
sproporzionata  per  eccesso  non  solo  se  rapportata  alle  scelte
complessivamente  operate  dal legislatore in sede di conversione del
decreto-legge  n. 241/2004, ma anche se raffrontata a quella prevista
in  relazione  a  fattispecie  criminose  analoghe  sotto  il profilo
oggettivo  e del bene giuridico tutelato. Il richiamo va all'art. 650
c.p.  che  punisce l'inosservanza di un provvedimento dell'autorita'.
Lo  scarto sanzionatorio esistente tra le pene previste dall'art. 14,
comma 5-ter e quelle comminate dall'art. 650 c.p. (arresto fino a tre
mesi  o  ammenda) appare difficilmente giustificabile a fronte di una
condotta  illecita  sostanzialmente  omogenea:  l'inosservanza  di un
provvedimento emesso dalla pubblica autorita' per motivi di sicurezza
pubblica  o  di  ordine pubblico (ragioni che, ai sensi dell'art. 13,
comma 1,  d.lgs.  n. 286/1998,  legittimano  un decreto di espulsione
dello straniero parte del Ministro dell'interno) e' infatti punita in
maniera  significativamente piu' severa se autore della violazione e'
un  cittadino  extracomunitario  illegalmente presente sul territorio
nazionale.
    Ne'  varrebbe  obiettare,  per escludere l'irragionevolezza della
scelta legislativa, che le due norme poste a raffronto fanno parte di
distinti   contesti   legislativi,   posto   che   «il  canone  della
ragionevolezza  deve  trovare  applicazione  non  solo all'interno di
singoli comparti normativi, ma anche con riguardo all'intero sistema»
(v. in tal senso: Corte cost., sentenza cit. n. 84/1997).
    La  denunciata  violazione del principio di proporzionalita' lede
altresi'  il  precetto  costituzionale  di  cui  all'art. 27, comma 3
Cost.,   poiche',   come   affermato   dalla   Corte  costituzionale,
«l'adeguamento  delle risposte punitive ai casi concreti - in termini
di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento - e' strumento per
una  determinazione  della  pena quanto piu' possibile "finalizzata",
nella  prospettiva  dell'art. 27, terzo comma, Cost.» (sentenza n. 50
del  1980).  Invero, una sanzione non corrispondente al disvalore del
fatto  (nel caso di specie, sperequata per eccesso) sarebbe avvertita
dall'autore  del  reato  come  non  «meritata»  e,  dunque, lungi dal
rieducarlo, lo indurrebbe ad ulteriori atteggiamenti di trasgressione
alla legge.